Vignetta di Fucecchi |
Personalmente mi viene ancora da aggiungere un punto: a prescindere dal contenuto dell'accordo, sul quale non ho elementi per fare una valutazione oggettiva, oltre le oggettive e innegabili colpe dei sindacati, mi pare comunque inaccettabile che un "padrone" si possa permettere di imporre un'intesa del genere con il ricatto (o vince il Si o non investiamo più su Mirafiori).
Domande retoriche: dove era (dov'è) la politica? In particolare, come può il PD, o almeno alcuni dei suoi big, dire "se fossi un operaio voterei SI" senza far notare l'inaccettabilità di questo ricatto?
...a parte i dieci minuti di pausa persi e monetizzati in poco più di trenta euro(lordi) al mese, a parte la pausa mensa che forse slitterà a fine turno, magari dopo dieci ore di lavoro in catena, a parte 15 sabati di straordinario obbligatorio a gente che già si spara turni che ammazzano la vita... in questo "accordo" (non si fosse capito, sto parlando di Mirafiori) ci sono un paio di cose che hanno un sapore amarissimo: rinuncia al contratto collettivo e rinuncia alla rappresentanza sindacale.
Tutti noi sappiamo cos'è un contratto: trattasi di un pezzo di carta su cui si fissano i termini di un rapporto, i rispettivi diritti e doveri, il mancato rispetto dei quali dà diritto alla parte lesa di rivalersi attraverso la legge dello Stato contro l'altra parte.
Un contratto è tipicamente frutto di un tira e molla fra le parti, ciascuna delle quali tira ovviamente l'acqua al suo mulino, fino ad un equilibrio che le soddisfi entrambe (o almeno, secondo certe scuole di pensiero, le deluda il meno possibile); come è ovvio, il risultato dipende dai reciproci rapporti di forza: chi di forza ne ha di più, ottiene di più.
Fuoriuscire dallo standard del contratto collettivo, quindi da una situazione in cui tutti i lavoratori di un comparto fanno fronte comune, vuol dire che ci (ri)avvicniamo sempre più all'ottocentesca situazione in cui il singolo sfigato doveva contrattare diritti, orari, salario con l'azienda, con evidente debolezza nei suoi confronti: se l'azienda ci mette tre secondi a trovare un altro che faccia il mio stesso lavoro ad un decimo della paga che chiedo io, so perfettamente dove l'azienda mi manderà...
Per questo esistono i sindacati.
C'è stato un momento nella Storia in cui le condizioni che le aziende potevano permettersi di proporre al lavoratore erano disumane e il modo in cui i lavoratori si sono difesi da questo squilibrio nei rapporti di forza è stato riunirsi in gruppi che li rappresentassero e che potessero portare sui tavoli la forza di mille, diecimila, centomila operai, senza i quali le aziende non avrebbero potuto perseguire il loro profitto, del cui lavoro le aziende avevano bisogno; ecco il punto, semplice come i luoghi comuni: l'unione fa la forza.
Oggi torniamo ai tempi della Rivoluzione Industriale, alla seconda metà dell'ottocento, ed è molto più drammatico di quanto sembri a prima vista: di tutti i lavoratori un'azienda ha bisogno come un uomo dell'aria, di me da solo può fare a meno come di un brufolo. SGNACK, e via!
Da questo i sindacati sono nati ed essendo per natura espressione di una collettività, di interessi condivisi da un gruppo esteso di persone, sono nati - o almeno sono diventati - democratici, cioè regolati nella loro rappresenatività da elezioni cui partecipano tutti i lavoratori i cui interessi dovranno essere tutelati.
La FIAT oggi, oltre ad escludere un paio di sindacati che sono espressione di una buona fetta dei propri interlocutori, scegliendosi la controparte più comoda che semplicemente firma un testo interamente predisposto dal padrone (possiamo adottare di nuovo l'antico termine), uccide per sempre la democraticità del sistema sindacato; se non è stato abbastanza ricordato, lo sottolineo ancora: i rappresentanti che siedono al tavolo della FIAT non sono eletti, sono nominati, e di altre elezioni non si fa menzione: non si voterà mai più, è chiaro?
Lo stesso meccanismo, traslato nella politica, disegnerebbe un parlamento senza più elezioni e in cui la maggioranza scrive unilateralmente le leggi e impone a forza una firma di mera accettazione passiva ad un'opposizione che peraltro lei stessa si è scelta.
Se un privato può fare ciò che meglio ritiene per il proprio profitto (e, intendiamoci, per lui la massimizzazione teorica, l'obiettivo limite è farmi lavorare 24h a zero euro), allora togliamo le parole "fondata sul lavoro" da quell'articolo che per primo qualifica e definisce la nostra Repubblica, il nostro essere Stato. Perché far parte di questo Stato, aderire al nostro Patto Sociale, vuol dire prima di tutto dignità ("pieno sviluppo della persona umana", Art. 3) e "solidarietà" (Art. 2); per concludere il pistolotto costituzionale, l'articolo 4 definisce il lavoro come oggetto di un diritto.
Se vengono meno quelli che la Costituzione definisce princìpi fondamentali, a cascata viene meno tutto, tant'è che una Legge che li contraddica, molto semplicemente è nulla, non ha dignità di esistere, non ha senso.
Quando la Costituzione parla di economia, parla dell'Uomo, non del Mercato. Se lo Stato soccombe al Mercato, allora l'Uomo vale meno del suo salario.
Il fatto che oggi ci si debba confrontare con il lavoro e i suoi costi come sono intesi in Paesi del mondo in cui i diritti dei lavoratori non esistono o sono quanto meno ad uno stadio primitivo rispetto ai nostri, non è un affare dell'impresa e dei lavoratori, è un problema dello Stato e dei suoi princìpi fondanti, e parlo di Stato intendendo non una faccenda che riguarda il funzionamento dello Stato, ma riguarda ciò che lo Stato è.
Non sono dettagli, non sono attributi, aggettivi, sono il soggetto: qualcosa di essenziale non è più ciò che era (e che credo dovesse e debba essere).
Non sono mai stato patriottico, almeno non nell'accezione retorica, ma lancio un grido di allarme: l'Italia, senza lavoro, dignità della persona e solidarietà, non è più l'Italia.
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